LA COLONIZZAZIONE IDROELETTRICA

La provincia del VCO è sicuramente una terra di acque e di montagne. Situata all’estremo nord del Piemonte è allungata tra i laghi prealpini e le Alpi Pennine e Lepontine.

Sul suo territorio ci sono moltissimi laghi alpini, alcuni ben identificabili, altri di difficile identificazione per le piccole dimensioni. Quasi tutti sono caratterizzati dalla quota elevata e da difficili condizioni ambientali. Alcuni laghi hanno una elevata superficie nel momento del disgelo ma sono quasi asciutti al termine della stagione estiva. Ci sono anche pozze d’acqua di dimensioni modeste, che tuttavia si mantengono per tutta l’estate. I laghi di maggiori dimensioni sono tutti bacini artificiali, quasi tutti costruiti all’inizio del Novecento durante quella che si chiama “la colonizzazione” idroelettrica dell’Ossola, che ha rappresentato la maggiore trasformazione storica del paesaggio alpino della zona.
Dei 32 bacini artificiali, solo 14 sono stati costruiti su bacini naturali preesistenti.

Lo sfruttamento delle acque nel VCO

Nella nostra provincia lo sfruttamento dell’energia elettrica ha avuto un ruolo estremamente importante per l’industrializzazione. Lo sfruttamento delle acque, il cosiddetto “carbone bianco” ha avuto inizio alla fine dell’ottocento con la comparsa de primo impianto. I pionieri furono i Ceretti di Villadossola che, per alimentare le proprie ferriere, costruirono una centrale che utilizzava le acque del torrente Ovesca. Tuttavia la valle che presentava le caratteristiche più adatte per lo sfruttamento idrico, per la presenza di ghiacciai, di laghi e di forti dislivelli, era sicuramente la Val Formazza. Inoltre questa valle aveva il record negativo del 66% di terreno non produttivo a causa dell’alta quota. Il primo a capire questa opportunità fu il giovane Ettore Conti che diventò uno dei maggiori industriali nel campo idroelettrico. Nel 1901 nacque la Società Anonima per Imprese Elettriche Conti, collegata alla società Edison e da questa poi assorbita nel 1926. Fra gli anni 1907-1908 ebbe inizio la costruzione dell’impianto di Rivasco e di Goglio, complessi che entrarono in funzione nel 1911. Il primo sfruttava l’acqua del Toce che, con un salto di 345 metri era in grado di sviluppare una potenza di 9200 Kw. Funzionò fino al 1928 quando venne assorbita nel complesso di Cadarese. Il secondo impianto utilizzava le acque del torrente Devero, che in inverno erano integrate con i bacini di Codelago e di Pianboglio. Il bacino di Pianboglio fu in seguito abbandonato per problemi di impermeabilità del terreno. 

Negli anni che seguirono e in modo particolare dopo la fine della prima guerra mondiale, tutta la valle fu un grande brulicare di imprese, maestranze e centinaia di operai. Puntualmente in autunno il maltempo rendeva impossibili i lavori per le abbondanti nevicate e causava la chiusura dei cantieri in alta quota. La centrale di Sottofrua fu terminata nel 1924 con una potenza di 7500 Kw e sfruttava le acque del Castel e del bacino imbrifero di Valtoggia, convogliate in una condotta ben visibile dalla strada che conduce al Rifugio Maria Luisa. Utilizzava inoltre anche le acque del lago Toggia e del Lago Nero.  Negli anni venti venne conclusa anche la centrale di Valdo che forniva ben 11000 Kw di corrente. Le acque di questi due complessi in condotte forzate alimentano la centrale di Ponte entrata in funzione nel ’40. La centrale di Cadarese, ultimata nel 1928, dispone di una potenza di 56000 Kw prodotti da un salto di 467 metri, portati da una condotta di 7 chilometri, scavata interamente nella roccia. Nel 1957 è stata inaugurata la centrale di Morasco che posta interamente in galleria sfrutta le acque dell’invaso del Sabbione. In questo complesso compare per la prima volta l’automazione, essendo tutte le manovre telecomandate dalla stazione di Ponte. Di pari passo alla nascita delle centrali è iniziata la costruzione degli invasi di sbarramento, le dighe che, considerando le tecnologie di costruzione, le oggettive difficoltà di realizzazione a causa delle quote elevate, delle difficili condizioni climatiche, del periodo di costruzione, della mancanza di appoggi logistici, si possono sicuramente definire “opera da ultima frontiera”.